Un crimine nascosto
- 09/05/2013
di Mila Mihajlovic, giornalista Rai International
STORY
UN CRIMINE NASCOSTO
E se venisse fuori solo oggi la notizia dell’esistenza di un campo di concentramento grande per estensione e per orrori come quelli più noti di Auschwitz-Birkenau, o Bergen Belsen, o Buchenwald, Dachau o Treblinka, l’Europa come reagirebbe? Purtroppo, nei Balcani ciò è ancora possibile.
Solo di recente, e con strenua forza di volontà di pochi, è stato possibile localizzare il campo di Jadovno dove, nel 1941 e in soli 132 giorni, furono trucidati più di 40mila civili serbi ed ebrei. Qualcuno, o meglio, più di qualcuno, si era ben adoperato per farlo sparire della memoria, per cancellare quell’eccidio. Ma l’urlo dei silenti ogni tanto scoppia e non si placa più.
Che cosa è Jadovno?
Jadovno era in realtà un complesso costituito da ben 37 località, comprese le foibe carsiche dove venivano buttati, in quei giorni maledetti del 1941, vivi o quasi vivi, i civili serbi ed ebrei. Fa parte di Jadovno anche lo stabile dell’ex prigione di Gospic (Croazia), dove una parte delle vittime veniva internata. Non lontano è la ferrovia dove, nell’estate 1941, arrivavano un numero infinito di convogli bestiame con stipate all’interno molte persone, tutte affamate, assetate, migliaia di donne, uomini, bambini.
Molti di loro morivano già durante il viaggio. In tale caso venivano semplicemente buttati fuori dai vagoni. Lungo la stazione ferroviaria, c’era un punto di raccolta delineato con filo spinato.
Lì gli Ustascià usavano, per alcuni giorni, tenere donne e bambini prima di avviarli alla morte. Alla destinazione finale proseguivano a piedi o caricati sui camion. Erano diretti in luoghi scelti in anticipo, ma molti non ci arrivarono mai, ammazzati strada facendo.
Tutto questo è Jadovno. Anche il fosso di Sharan, quello sotto il Monte di Grga. Jadovno è anche la sola località del campo dove, chi fosse riuscito ad arrivare miracolosamente ancora vivo, sarebbe morto di lì a breve. D’altronde, gli artefici del massacro non avevano neanche contemplato la possibilità di una prolungata permanenza di deportati nel campo di concentramento.
Non era un luogo per i vivi quella, perché le colonne delle vittime arrivavano in continuazione e bisognava “smaltirle” a ciclo continuo.
Jadovno, la valle in alta montagna circondata da filo spinato, non aveva né baracche nè letti. Gli internati li improvvisavano da soli, con rami e foglie. E i conteggi degli internati venivano fatti solo all’inizio. Dopo, per i carnefici, tale lavoro diventò troppo complicato.
Dello stesso complesso facevano parte anche i campi Slana e Metajna sull’isola Pago. Molte vittime venivano indirizzate lì, ma, attraverso Karlobago e i monti impervi di Velebit, solo pochi arrivavano alla méta. Sempre strada facendo, li uccidevano e li infoibavano.
Localizzare esattamente tutte le foibe non sarà mai possibile data l’estensione di quei monti carsici. Si conoscono i nomi delle più grandi, come la foiba Badanj. Quando i camion con le donne e bambini stipati, attraversando i monti di Velebit, arrivavano sul punto dove improvvisamente appare
la vista del mare e sull’isola Pago, molte madri costernate chiedevano: Per pietà, ma dove ci state portando?
A Karlobago, lo scarico dai camion e il trasbordo degli internati sulle barche era brutale. La maggior parte delle donne e dei bambini a Pago non arrivò mai: li buttavano a mare con pietre legate al collo o con la pancia tagliata – per far si che i corpi non tornassero a galla.
Chi riusciva a sopravvivere, veniva indirizzato a Slana (uomini) o a Metajna (donne e bambini). E lì gli uomini, sulla pietra viva e con la pietra come l’unico attrezzo, costruivano una strada: era una strada senza senso, senza direzione o utilità alcuna. Costretti a lavorare sotto il sole intenso solo per soffrire
e morire di stenti. Le liquidazioni avvenivano ogni notte. A caso. In genere nella parte est del campo, a Furnaza, dove c’è un po’ di terra per ricoprire i corpi. Quanti erano? Era possibile contare solo quelli uccisi poco prima della chiusura del campo.
La chiusura venne ordinata dalle autorità militari italiane. A 132 giorni dalla caduta della Jugoslavia, gli italiani presero il controllo di quel territorio. I militari riesumarono e cremarono i corpi delle vittime. Poi ricoprirono tutto con le pietre.
Soltanto i militari italiani documentarono quel crimine con le fotografie che finora non hanno visto luce. Alcune, però, sono state trovate. Nei primi giorni del suo arrivo sull’isola Pago, il medico militare, tenente Santo Stazzi, scriveva nell’informativa al comando: I corpi trovati sono 470 uomini, 293 donne,
91 bambini, di età da 5 a 14 anni e un neonato di circa 5 mesi. Il tenente Stazzi, aggiungeva: Dalla guida che mi ha indicato le varie località degli eccidi da bonificare, sono venuto a sapere che la maggior parte dei deportati a Slana veniva buttata in mare, con grosse pietre legate al collo. Molti, però, si toglievano la vita da soli, gettandosi in mare.
Ecco cosa è Jadovno, la zona in cui i fascisti croati, i famigerati ustascia, trucidarono in soli 132 giorni 40.123 civili, colpevoli solo d’essere serbi o ebrei. Finora si conoscono i nomi di sole 10.502 persone. Pochi sopravissero per testimoniare. Uno di loro è il dottor Oto Radan, nato a Vienna il 4 ottobre 1904, figlio di Lavoslav Salamon e Irene, laureato in giurisprudenza, arrestato dagli ustascia a Zagabria il 21 giugno 1941. Erano, infatti, ebrei croati i primi che abitarono il campo della morte. Tutti intellettuali, parte della buona borghesia di Zagabria. Uomini, donne e bambini. Sterminati quasi tutti in modo indescrivibile. Poi arrivarono i serbi, molto più numerosi, anche se in percentuale non c’era poi tanta differenza. Il dottor Radan ha testimoniato per tutta la sua vita, dopo la guerra, a Zagabria.
Crimine nascosto per decenni
Qualcuno si era ben adoperato per nascondere Jadovno alla storia. E per confondere. Era difficilissimo anche capire che cosa fosse stato il campo. Non lo sapevano d’altronde neanche nel 1941. Infatti, molti deportati su quella maledetta strada, nel mezzo della foresta di Velebit, a sudovest di Gospic, chiedevano alle persone che incontravano: Quanto dista la città di Jadovno?
Chi ha indagato su questa storia, cercando, chiedendo in giro alla gente o anche alle autorità di Gospic, ha ricevuto sempre la stessa risposta: Non sappiamo. Ma, per fortuna c’è il prof. Djuor Zatezalo che ha dedicato gran parte della sua vita alla ricerca su Jadovno. Anziano e ammalato, ha acconsentito di venire con me sui monti.
Abbiamo chiesto alle autorità locali di Gospic di accompagnarci ma hanno rifiutato dicendo che quella strada di montagna era pericolosa e che di sicuro non saremmo riusciti a localizzare il campo di concentramento. Uno di loro mi chiese: – Non ha paura? – No, per nulla, risposi, lassù mi aspettano da decenni i miei due nonni e lo zio!
Il Professore era stato qui l’ultima volta nel 1991. Oggi torna qui in auto. Ci ha condotto per circa 6 chilometri salendo verso la Foiba di Sharan. Da questo punto, poi, bisogna proseguire a piedi. Arrivati, il Professore si è avvilito poiché non riusciva più ad orientarsi. Durante gli ultimi 20 anni, i cambiamenti della natura e il lavoro della Forestale avevano mutato il terreno. Abbiamo vagato per più di un’ora e il Professore ci conduceva sempre più in profondità. Poi si staccò dal gruppo e, da solo, trovò il campo. Quando l’abbiamo raggiunto, sedeva su una parte del monumento distrutto e piangeva. La valle dove era il campo era bagnata dal sole. Ma quel luogo gronda sangue. Sono ancora ben visibili le sepolture di massa dei deportati trucidati poco prima della chiusura del campo ordinata dagli italiani. Il monumento, minato dalle forze croate nel 1995, era coperto da tronchi e rami d’alberi caduti. Sulla vallata si scorgono visibili zafferani azzurri. E tutt’intorno un assordante silenzio. Fatto strano: lì gli
uccelli non cantavano.
Con il GPS ho registrato le coordinate: 44 35.267 ‘N, 015 11.366 ‘E. Da ora, chiunque volesse salutare le invisibili presenze dei propri cari qui scomparsi, può farlo: sa dove andare a cercarli.
Gli uccelli qui tacciono
Per coloro che non hanno mai sentito del campo di Jadovno ci sono tanti tipi di campo: di boy scout, di lavoro, di sportivi, di scienza… Monte Velebit è geograficamente famoso come un bellissimo parco naturale, méta attualmente molto di moda per gli sport estremi, per scalatori, per speleologi e ciclisti. Molti lo attraversano per raggiungere il mare cristallino della Croazia e in cima, laddove si vede il mare, molti si fermano per ammirare la magnifica natura, per un picnic o per fare foto ricordo.
Se ci siete passati, non abbiate rimorsi. Siete passati ignari di essere sul territorio di uno dei più atroci campi di concentramento che la storia ha conosciuto.
Se proprio lì ridevate, mangiavate con gusto, vi divertivate in bici, facevate foto, o il bagno in quelle splendide acque marine, o facevate l’amore, … non vi preoccupate: nessuno vi giudicherà male. Non sapevate, perché non era permesso di sapere. Per ordine delle autorità è calato il buio, un’amnesia collettiva. E chi non voleva tacere, veniva punito. Ma la verità non si può nascondere in eterno. La verità, prima o poi, scoppia e urla. Chi vuole che le vittime vengano dimenticate, vuole
che il crimine si ripeta – è scritto all’ingresso del campo di Dachau.
In cima al Monte Velebit fa sempre freddo, anche d’estate. Il vento soffia forte e i viandanti si fermano per poco. Forse per questo, quasi nessuno si accorge che lì gli uccelli non cantano.
“Karnenu”, dicembre 2010